Verrà presentata alla Feltrinelli di Cosenza il prossimo 31 marzo alle 18,00 la nuova edizione Rubbettino di “Un treno nel Sud di Corrado Alvaro”. A discuterne saranno l’antropologo Vito Teti, autore del saggio introduttivo a corredo del volume, e Giuseppe Lupo, noto scrittore e saggista.
Il libro, tra i reportage di viaggio più celebri della letteratura italiana, pubblicato originariamente nel 1958 da Bompiani come terza e ultima parte di “Itinerario italiano”, è tra le opere più citate sulla Calabria ma fino ad ora difficile da reperire se non sul mercato antiquario o in biblioteca. L’edizione Rubbettino, arricchita dalla chiave di lettura autorevole di uno studioso di Alvaro del calibro di Vito Teti, colma dunque un vuoto offrendo nuovamente a lettori e studiosi la possibilità di attingere alla ricchezza inesauribile di questo testo che, letto oggi, appare di un’attualità per certi versi sconcertante e di un potere profetico straordinario.
Un treno nel Sud è, innanzitutto, un viaggio di ritorno, racconta un ritorno nell’universo di origine da cui Alvaro era andato via definitivamente nell’ottobre 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, per poi compiere rari e brevi ritorni per trovare i familiari, per la morte del padre, per fare visita alla madre, che abitava con il fratello Massimo. Ritorni concreti che si sommano ai costanti ritorni letterari
Il Sud di cui parla Alvaro, al pari di altri Sud del mondo, è un luogo geografico, ma allo stesso tempo un problema e una questione sociale che va spiegato con riferimento alla geografia e una storia lontana e vicina. È un Sud caratterizzato da una cultura tradizionale agropastorale, che appare come un luogo altro e diverso pure all’interno della nazione di cui fa parte. L’alterità del Sud consiste però anche nelle immagini e nelle narrazioni che gli altri ne hanno offerto e anche nelle forme di rappresentazione che i suoi abitanti ne hanno costruito per rispondere allo sguardo esterno, ora assumendolo ora negandolo, comunque restandone condizionati. Alvaro, che conosce benissimo la letteratura di viaggio sul Sud e la letteratura meridionalistica, non si sottrae al topos letterario e antropologico, alla necessità, di fare i conti con le leggende e i pregiudizi esterni, di confutarli, attenuarli, rovesciarli. Non è un caso che, affrontando la leggenda del dolce «far niente», riprenda uno dei motivi canonici della letteratura sul Sud e sui meridionali: quello dell’ozio attribuito dai visitatori del Nord, almeno fin dal Seicento, a tutte le popolazioni d’Italia.
Una lettura raffinata, mai banale del Sud, che Alvaro può e sa guardare dall’interno, riconoscendone l’alterità. La sua comprensione del mondo di appartenenza gli consente, per esempio, quando parla dei napoletani, di mostrare come ciò che gli altri considerano «servilità» altro non è che «rassegnazione e tolleranza», o anche un senso di intima superiorità spirituale, che si regge sul fatto di capire. E così l’osservato ribalta il punto di vista dell’osservatore.
Il doppio statuto di interno ed esterno, di chi è andato via e di chi torna, di chi è rimasto ed è sempre fuggito, consente ad Alvaro di ricondurre i tanti stereotipi sul Sud, non tanto confutandoli o rigettandoli, quanto riportandoli a una storia e un’antropologia che egli conosce profondamente e segnalando anzi, come in un universo mondanizzato, quei modi di essere e quei valori che potrebbero trovare una nuova udienza e un nuovo senso:
Solo uno scrittore che ha guardato questa terra con occhio interno e in profondità può restituire il senso che sfugge a qualsiasi riflessione socio-antropologica.
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