A distanza di vent’anni dalla prima edizione Rubbettino lancia in libreria il libro – più attuale che mai – della scrittrice piemontese Marisa Fenoglio (sorella di Beppe) “Vivere altrove”
C’è una narrazione dell’emigrazione italiana oggi largamente diffusa che vede i nostri emigrati quasi delle icone di stile, portatori nel mondo del “made in Italy”, diffusori di cultura, civiltà e bellezza. È un racconto che non tiene conto delle storie (verissime) di clandestinità, di disagio sociale, di delinquenza, di emarginazione. Storie che renderebbero quella emigrazione fin troppo simile a quella moderna che ha nell’Italia uno dei Paesi di maggiore approdo (seppure spesso solo di passaggio).
C’è poi un aspetto che è spesso ignorato o, meglio, rimosso. Ed è quello del dolore e dello spaesamento di chi è partito (e spesso di chi è rimasto), della ricerca spasmodica di nuovi equilibri e nuove identità, sempre più difficili da raggiungere e che finiscono per identificarsi con l’instabilità stessa e lo spaesamento.
A narrare questa condizione è il libro della scrittrice piemontese Marisa Fenoglio “Vivere altrove”. L’autrice narra la sua di emigrazione, quando negli anni ’50, da “sposina”, segue il marito, funzionario di una nota azienda piemontese, in uno sperduto paesino della Germania, dove l’uomo è incaricato di seguire lo sviluppo di una succursale della casa madre.
Quella della Fenoglio è senza dubbio una forma di emigrazione privilegiata, non contrassegnata dallo spettro della miseria e del bisogno, ma, ciononostante, l’autrice è consapevole che la distanza tra la sua esistenza e quella dei tanti poveracci che lasciavano la stazione di Milano centrale con le loro valige di cartone è minore di quanto si possa pensare. Con i lavoratori che assiepano i treni in partenza verso il Nord Europa condivide quel senso di smarrimento, di solitudine di ogni emigrato. “Esiste un’emigrazione facile? – si chiede l’autrice. – Nessun emigrato conosce alla partenza la portata del suo passo, il suo sarà un cammino solitario, incontrerà difficoltà che nessuno gli ha predetto, dolori e tristezze che pochi condivideranno. L’emigrazione gli mostrerà sempre la sua vera faccia, il prezzo da pagare in termini di solitudine e di rinunce. E a ogni ritorno in patria scoprirà quanto poco sappiano coloro che restano di ciò che capita a coloro che sono partiti.” Quella dei primi anni, descritta dalla giovane Fenoglio, è una Germania minacciosa, una aliena entità geografica, ancora gravida dei tragici eventi della guerra, terra ostile per clima e paesaggi. Col tempo scoprirà che per ogni straniero l’indispensabile strumento di integrazione e di appartenenza al nuovo paese è la lingua: “La patria non è soltanto una casa, una famiglia, un paese, la patria è sopratutto una lingua. Ogni lingua è un confine territoriale che esclude chi non parla, un mondo a se stante che non rimpiange altri mondi perché tutto contiene, un tessuto connettivo che forgia i pensieri e fa di individui un popolo”.
“Vivere altrove” è un libro che è oggi, paradossalmente più attuale di quando venne scritto e che merita pertanto di essere letto e conosciuto.
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