Intervista di Violeta Murati. Traduzione in italiano è di Maria Teresa Conte.
Lo scrittore sarà ospite del Festival Letteratura di Mantova 2019
Con un’intensa attività creativa, dopo Kadare, Fatos Kongoli è lo scrittore più tradotto in altre lingue. Considerato lo scrittore della transizione, le sue opere contengono il dolore e le perturbazioni dello spirito dell’Albania post anni ’90; non di rado i suoi libri sono diventati il focus di diversi dibattiti sulla percezione dell’individuo in una società come la nostra, feroce e aspra, mentre racconta di come i suoi personaggi sono nati, in un processo creativo unico influenzato da Balzac, Camus, Cechov…
A metà Gennaio si è tenuto il 75° anniversario della sua nascita, una data che è non è stata ricordata. Le è capitato spesso durante la sua vita di passare nel silenzio? Come si sente uno scrittore quando in un determinato momento si distacca dal suo lettore?
Ci sono casi in cui, per una ragione o per un’altra, gli altri non si ricordano che hai una ricorrenza, e ci sono casi in cui se ne ricordano in molti. A me sono capitati entrambi. A proposito del 75° compleanno, in alcuni casi se ne sono ricordati e mi hanno inviato gli auguri, ma è avvenuto anche il contrario. Come sapete, io stesso mi dimentico del mio compleanno. Quindi non ne sono sorpreso, né tantomeno do importanza alla cosa. In riferimento al mio distacco dal lettore, posso dirvi che non mi ha influenzato.
Lasci che le chieda di un momento difficile della sua vita – ha attraversato un periodo con gravi problemi di salute, ma ciò che ha attratto di più è stata una parola nuova per le orecchie degli albanesi: eutanasia, cioè la sua idea di andarsene con coscienza da questa vita. Tale momento è stato una sorpresa, uno shock, o almeno così è stato percepito. Cosa stava accadendo nella sua psicosi?
È vero, ho attraversato un periodo molto difficile. Quando ho saputo della malattia, e soprattutto ho capito in che condizioni mi sarei ritrovato dopo l’operazione, ho sinceramente pensato che non avesse più senso vivere. L’ho pensato con assoluta calma. Senza alcuno stress o preoccupazione. L’ho anche detto, dopo che qualcuno mi chiese se avessi paura. Mi sono operato due volte di fila, a Gennaio e anche a Febbraio dell’anno scorso. Se ho avuto paura quando sono entrato in sala operatoria? No, assolutamente no. Sono entrato col sorriso, abbastanza calmo. Ho pensato che fosse come se stessi prendendo un taxi che, ovunque mi avrebbe portato, non lo avrei capito. Dunque sono entrato molto tranquillo. Non mi avrebbe impressionato neanche se il taxi non fosse tornato indietro. Sono entrato, ho bussato, ma mi hanno detto di no. E io sono tornato.
E quando le è sorto il pensiero dell’eutanasia? Perché questa decisione?
Il pensiero dell’eutanasia mi è sorto quando ho realizzato come sarei stato dopo l’operazione. Ero messo estremamente male: intubato lungo tutto il corpo… l’essere umano non potrebbe vivere in queste condizioni. Lì mi è venuta in mente e ho insistito. Un po’ mi prendevano in giro. Ne ero proprio convinto. Non c’è niente di strano, prima o poi l’essere umano andrà verso la sua destinazione finale. Tuttavia, ciò non viene accettato. Io sono per l’eutanasia quando è la persona stessa a cercarla. Però qui subentra la religione, diverse non lo permettono. A me non piace tenere le persone in modo barbaro, per anni attaccate ai macchinari… quella non è vita. Io sono per l’eutanasia. Ho sentito parlare molto di eutanasia, ci sono paesi europei dove è permesso. Uno è in Olanda. Ma in molti paesi non è permesso, dal momento che in mezzo c’è la religione a contrastarla: per principio la vita te la dà il Signore e lui te la prende. Qui per me non c’è nulla di terribile. È un desiderio lucido, non dovuto a qualche stress o confusione di pensieri. Era desiderio. Se fossi stato in altre condizioni e avessi avuto l’opportunità di farlo, io dico che l’avrei fatto.
Mettiamo da parte questa fase finale della vita e torniamo all’attività creativa, dall’inizio. Come si è addentrato nella letteratura? Da qualche parte ha affermato che non l’ha ancora scoperto. A che atmosfera rispondeva la sua condizione?
È una domanda che mi è stata fatta spesso. Alcuni anni fa, come sapete, ho pubblicato un libro dal titolo “Illusioni nel cassetto”[1](“Iluzione në sirtar”) e lì ho spiegato come mi sono addentrato nella letteratura. Ho iniziato con qualche poesia, come tutti i giovani. Soprattutto durante il ginnasio, l’età della poesia. Però, ho iniziato a scrivere in prosa quando ho ricevuto l’incarico come insegnante in un paesino in una zona montuosa, ad Elbasan. Lì ero solo. Avevo una camera. C’ero solo io sulla cima della montagna. Il paesino era lontano venti minuti a piedi, era il quartiere più vicino. Mi hanno dato una stanza lì. Non avevo niente da fare. Dunque, ho iniziato a scrivere dei racconti brevi. Una volta ho fatto un articolo per il giornale locale di Elbasan, poi un reportage, fino a quando non ho iniziato a scrivere i primi racconti.
Quando ha avuto la sensazione che con la letteratura stava diventando una cosa seria? I giovani, che si considerano scrittori, la sentono con forza all’inizio, cos’è successo a lei?
Questa è una bella storia. Quando ho pubblicato il primo racconto nel periodico “Drita”, ho maturato la convinzione di essere per davvero uno scrittore. Non ricordo adesso che cosa fosse. Mio padre all’epoca lavorava presso la Lega degli Scrittori (“Lidhja e Shkrimtareve”), ha fatto leva anche lui con le sue conoscenze e mi hanno pubblicato. In ogni caso, in quel momento ho realizzato di essere uno scrittore. Questa è un’abitudine di tutti i giovani, di tutti i principianti. Dal momento che iniziano ad essere pubblicati, si convincono di essere veramente scrittori. Non fa bene avere tale fiducia in sé stessi. È un vizio dei letterati giovani che vogliono pubblicare. Alcuni si liberano presto di quest’immagine di sé stesso di essere uno scrittore, capiscono che la letteratura non è tutto, che non è così facile. E intraprendono la strada della ricerca… Ma la letteratura è una maratona molto lunga. Alcuni rimangono letterati giovani tutta la vita, non se ne rendono conto. Io l’ho capito molto presto e mi sono liberato. Sono uno scrittore semplice.
Lei si è laureato in matematica, si sa, e per questa ragione si dice che è entrato nel mondo della letteratura dalla porta sul retro. Quanto ha prevalso la logica matematica nella sua attività creativa? O la ha isolato?
Ho intrapreso la via della matematica non perché avessi un qualche talento in essa. Sono stato un ottimo studente, al liceo avevo voti eccellenti; tuttavia, quanto a talenti, non ne avevo. Ho scelto di studiare matematica perché così voleva mio padre. Ha deciso lui che dovessi optare per essa. Da parte di un genitore questo tipo di scelta rappresenta un ordine in quel momento. Inizialmente, visto che non avevo talento per la matematica, mi portarono in Cina dove fingevo di studiarla. E ho visto che mi avevano inculcato qualcosa di sbagliato, me l’avevano imposto. Per questo motivo, pace all’anima sua, mi arrabbiai molto con mio padre che mi aveva costretto ad imbattermi nella matematica Non avevo talento, qualsiasi cosa si fa col talento. Ma ho sprecato solo dieci anni della mia vita con essa, mentre come scrittore ci sono ritornato. Più tardi, quando iniziai a capire cosa fosse la letteratura, ero grato che mi avesse costretto a studiare matematica, la quale, come scienza, il minimo che possa dare alle persone che la studiano è quella che viene chiamata logica matematica. Cos’è la logica matematica? È quella che ti permette di non fluttuare con il pensiero. Riguardo ogni tesi che sollevi o cosa che dici, ti costringe a trovare un perché. Perché è così? Quando ti chiedi il perché, di conseguenza darai spiegazioni. In breve, è una logica che ti permette di non altalenare, che sviluppa il senso autocritico o critico. Ho detto ciò e non credo che sarà mal interpretato, perché a chiunque voglia avvicinarsi alla letteratura, scrivere letteratura, suggerirei di fare un corso di matematica, almeno di due anni.
Dunque, è stato in qualche modo enfatizzato attraverso i media il fatto che sia passato dalla matematica alla letteratura come se fossero due sponde opposte e non collegate? D’altra parte, tali intrecci di professioni creano anche un emblema attraente per lo scrittore…
Sì, esatto. Quando ti fanno un paio di domande sembra che tra la matematica e le arti, soprattutto la letteratura, non ci sia alcun collegamento. Non è vero. Tra la matematica e la letteratura c’è un legame forte, per esempio nel mio caso essa ha influenzato il modo in cui scrivo, iniziando a capire davvero che cosa sia la letteratura, il suo oggetto, di cosa si occupa, come si crea, ecc. Anche se la scrittura è un processo metafisico, difficile da spiegare. Ma nel mio caso essa si riflette nella struttura dei libri, nello stile letterario, una complessità di elementi che si mettono insieme. Voglio ricordare un aneddoto di Einstein, il quale, quando gli hanno chiesto quali fossero state le personalità che hanno influito su di lui per la scoperta della teoria della relatività, insieme ad un lungo elenco di persone egli menziona, per primo, Dostoevskij. Si può spiegare quale collegamento possa avere la letteratura, Dostoevskij, con la teoria della relatività?! Dunque, con ciò voglio dire che cose così distanti si uniscono da qualche parte e la spiegazione non è così semplice, è un po’ complessa, metafisica.
L’oggetto dello scrittore è lo spirito dell’individuo. La sua letteratura è stata visibilmente volta al dolore dell’essere umano. Com’è stata raccolta questa materia, chi è che ha influenzato le sue storie?
Il dolore è insito nella vita dell’essere umano, è onnipresente. È vero che sono stato incline a questa letteratura, mi ha molto influenzato in un certo momento. In determinati periodi, come tutti, sono stato influenzato da grandi scrittori, inizialmente da Cechov. Ma più tardi ho subito di più l’influenza di due grandi classici, uno del XIX secolo e l’altro del XX secolo, rispettivamente Dostoevskij e Albert Camus. Questi due, per me, sono i rappresentanti più significativi di quella che chiamiamo letteratura del dolore umano. Io sentivo di tendere verso essa. Quanto l’abbia raggiunta, è un’altra cosa. Questa tipologia di letteratura non poteva essere fatta prima degli anni ’90, in quanto non esisteva il “dolore umano”, ed era pericoloso averne a che fare. Così, ho potuto indirizzarmi verso quella letteratura solo quando mi sono liberato dalla censura e dall’autocensura.
L’uscita del libro autobiografico “Illusioni nel cassetto” (“Iluzione në sirtar”), nell’anno 2011, considerato da lei “quasi un romanzo”, è stata accompagnata da un dibattito pubblico. Possiamo dire, a distanza, cos’ha rappresentato quest’episodio per lei?
Quel libro è un riscontro della mia letteratura: tra il libro che scrivo e la mia vita. Ecco cosa ho fatto in quel libro. Fin dall’inizio ho scritto che è un tentativo di ricerca del tempo perduto. Volevo dargli questo titolo: il mio tempo perduto nella vita e nella letteratura. Dal momento che era autobiografico, di 400 pagine, ho inserito un episodio traumatico della mia vita. Questo fatto è avvenuto sotto forma di scusa pubblica. Ciò che è successo non è stato glorioso per me. Era un grande pegno. Quel libro l’ho scritto, soprattutto tale “episodio”, come debito che avevo in primo luogo con me stesso, e sicuramente anche con la famiglia del mio ex collega. Ma all’epoca qualcuno l’ha usato nella maniera più terribile, accusandomi di cose che non erano vere… all’epoca, al culmine degli attacchi che mi diffamavano, ci sono state persone sagge che hanno valorizzato molto questo gesto. Non c’è dubbio che non volessi alcun riconoscimento. Ma ho detto qualcosa che non aveva mai detto nessuno. Mi ricordo, poi, che una personalità nota citò un detto biblico esprimendosi a riguardo: chi non ha peccato, scagli la prima pietra. Dal 2011, quando uscì il libro, difficilmente sono stato tenuto separato da quell’evento. Ma, d’altronde, questo libro riguardava tutti gli scandali e le follie che ho fatto nella mia vita. Mentre oggi ho il grande piacere di farle sapere che un anno fa è stato pubblicato in italiano.
Questo libro lo ha liberato, a conti fatti?
Io mi sono liberato quando ho scritto questo libro.
L’ultimo romanzo, “Il battello annegato”[2](“Gjemia e mbytur”), un’opera che si occupa delle sofferenze dell’individuo, della pressione che la società esercita sull’uomo… Cosa rappresentava questo romanzo per lei? Cosa continua ad essere preoccupante?
“Il battello annegato” è l’ultimo romanzo che ho pubblicato, sperando in qualche avventura… è stato un romanzo sperimentale, sia nel modo di scrivere che di pensare. Qualcuno ha scritto a riguardo considerandolo il romanzo migliore. Inizialmente, non so perché, è stato frainteso, come se avessi a che fare con la Casa delle foglie[3]. Non era ciò che avevo in mente né tantomeno volevo avere a che fare con essa. Più tardi, alcuni hanno identificato i personaggi con Asllan Rusi e Pranvera Hoxha e la loro relazione. Forse Pranvera l’avevo un po’ in mente, ma Asllan Rusi assolutamente no. I due fratelli che riporto nel romanzo sono completamente diversi, non sono i fratelli Rusi. Io li ho conosciuti, hanno avuto entrambi una fine tragica. I miei personaggi non hanno alcun collegamento con loro, ma ognuno interpreta come vuole. Posso dire che questo romanzo è stato un esperimento che, in generale, è stato ben accolto.
Lei è per tre volte vincitore del Premio Nazionale Letterario per il miglior libro dell’anno in prosa, conferito dal Ministero della Cultura, con i romanzi: “L’ombra dell’altro”[4](“Kufoma”), 1995, “Il drago d’avorio”[5](“Dragoi i Fildishte”), 2000, “Il sogno di Damocle”[6](“Ëndra e Domokleut”), 2002; e vincitore del premio “Balkanika” con questo stesso romanzo. Ma lei stesso ha fatto una sorta di classifica, considerando “Pelle di cane”[7](“Lëkura e qenit”) il suo miglior lavoro. Cosa collega questi romanzi?
Le valutazioni le fanno gli altri, ma voglio dire innanzitutto che i miei due libri più di successo, relativi alle pubblicazioni in Albania e alle pubblicazioni in lingue straniere, sono “Un uomo da nulla”[8](“I humburi”) e “Pelle di cane” (“Lëkura e qenit”). Sono stati ripubblicati otto volte e pubblicati in sette o otto lingue straniere. I primi quattro romanzi li ho raggruppati in un ciclo che ho chiamato “La prigione della memoria”, gli altri sono rimasti fuori da questo ciclo. “Pelle di cane” (“Lëkura e qenit”) è il libro che chiude il ciclo della memoria.
L’intero processo della sua scrittura segna alcune fasi, cosa che non avviene con nessun altro autore: prima degli anni ’90 e dopo la caduta della dittatura. Successivamente i romanzi compiono un balzo in avanti, tutto sempre per mezzo della narrazione. Perché è nata l’esigenza di scrivere diversamente?
Questa è una domanda essenziale. Non se ne esce proprio facilmente, perché conduce alla definizione finale che la scrittura è un processo metafisico che, in primo luogo, porta con sé il quesito con il quale si confrontano spesso tutti gli scrittori: perché scrivi? A tal proposito esiste un libro, in cui diversi scrittori hanno dato una risposta. Gli scrittori sono vanitosi, a loro piace vantarsi, ma a questa bella domanda, non lo dimentico, ha risposto un noto scrittore, non ricordo bene se Zweig o Cechov, quando dice: scrivo perché non posso non scrivere. Avendo una tendenza verso quella che chiamo letteratura del dolore umano, sono sempre attento a non annoiare i lettori. Questo è stato il mio principio di base. I lettori hanno poca pazienza, soprattutto nell’epoca moderna dove c’è un surplus di informazioni. Leggono una pagina, o un paragrafo… e non leggono più. È terribile per me. Ho sempre voluto creare una conversazione nuova coi miei libri, in senso metaforico. Un libro è un dialogo nuovo. Ho sempre voluto intrattenere un nuovo dialogo con il lettore.In qualche modo, ho sempre sperimentato. Ho condotto un esperimento con ogni libro, senza sapere cosa fosse. Sicuramente, una tendenza fondamentale ce l’ho, ma adesso che vedo e penso da un libro all’altro in retrospettiva, ma anche se ricordo come ho concepito un libro o un altro, posso dire di aver sperimentato sempre. Ho anche avuto fortuna. Per di più, da quel che ho visto, i miei libri, soprattutto dopo gli anni ’90, sono stati ben accolti, hanno avuto diversi lettori. Così, penso che volendo fare una nuova conversazione, all’interno dei miei confini letterari, ho sperimentato, cercato e trovato, da tutti i punti di vista – ho fatto una ricerca non ripetendomi.
Il suo editore Fatmir Toçi, “Toena”, ha detto che Kongoli è uno degli scrittori che ha scritto di più sulla sua vita, un invito alla lettura fatto con le “parole giuste” da un editore. Com’è stata questa relazione, quanto è importante il legame tra scrittore ed editore, soprattutto nel processo di scrittura?
Fatmir, ora sua moglie Irena, è il mio terzo editore e anche l’ultimo. Penso che l’editore abbia una straordinaria importanza per lo scrittore. Non c’è legame più importante per lo scrittore di quello con l’editore. Io sono molto contento di “Toena”, in quanto questa casa editrice ha giocato un ruolo importante nel ritmo della mia attività creativa. Mi ha detto pochi minuti fa che ho scritto intensamente, continuamente…è vero. Questi ritmi li ho avuti grazie alla casa editrice. Se un editore non mostra interesse, ostacola il ritmo della scrittura. Se oggi prende il libro e non ha tempo, lo legge dopo un anno, a quel punto per te è tutto finito. Soprattutto nel mio caso, questo gioca un ruolo cruciale, in quanto io non faccio parte di quella categoria di scrittori che sono in grado di scrivere due o più libri contemporaneamente. Ce ne sono molti di questo tipo. Io inizio a scrivere un libro, lo finisco e lo considero completo quando esce dalla casa editrice. Se l’editore interrompe questo mio ciclo interiore, mi lascia non solo non letto, ma anche non pubblicato, egli interrompe totalmente il mio ciclo. Mi danneggia incredibilmente, mi blocca. Io inizio a pensare ad un libro nuovo dopo essermi liberato dal libro precedente. Come sarà accolto questo libro è un’altra cosa. Mi pongo un grande quesito su come uscirà. Devi svuotarti. L’ho sempre sentito come un bisogno. Quindi apprezzo molto l’editore, perché non mi trascina per lungo tempo, assolutamente no, creandomi l’opportunità di rimanere vuoto. Se non rimanessi vuoto, non avrei la possibilità di creare qualcos’altro, con un altro soggetto. Questo è il ruolo principale dell’editore per me. La più grande sofferenza per uno scrittore è quando finisce un libro e non ne ha un altro. È crisi, è stress perenne fino a quando non arriva… inizialmente, una piccola idea, una storia, un soggetto, fino a quando inizi a vedere il personaggio, alcuni punti principali e, in seguito, il libro ti trascina con sé. Se non vedi il personaggio principale e due o tre sue ambientazioni, il libro non prende l’avvio. Per prima cosa, devi vedere il libro per sederti e scriverlo. Nella mia attività riguardante il processo di scrittura, o quello che viene chiamato laboratorio della creazione, ho sempre iniziato dalla pratica di scrittore universale, com’era Balzac. L’ho imitato.
Ha conservato tali note, come le chiama lei, sulle biografie dei personaggi? Come le costruisce?
Guardi, non ho intenzione di lasciare qualcosa. Voglio portare con me tutte le intimità dei personaggi, non lascio note di questo lavoro. Non conservo gli appunti, li scrivo solo per me stesso. Sicuramente, per alcuni personaggi ho costruito delle biografie, mentre inizio il libro dopo aver fatto un lavoro preliminare – a quel punto la scrivania mi attira a sé. Colloco i personaggi principali nel tempo e nello spazio. Faccio uno schema orientativo che inizia con il personaggio principale, certamente non li raccolgo tutti. Li prendo a turno, lungo il grafico, imposto il romanzo, quando inizia e quando finisce, dopo colloco i personaggi, dove sono stati, la scuola che hanno fatto, quando vanno a lavoro, e vedo dove si incrociano. Mi concentro e faccio attenzione affinché i personaggi non si ripetano. Questi sono segreti che conosci solo tu, il lettore non ne ha idea. Ma ci sono lettori malintenzionati che seguono il personaggio e potrebbero scoprire che è stato ripetuto due volte. Io non do loro questa possibilità. Sono i trucchi del mestiere, che mi piacciono molto, prevengono e risolvono di gran lunga questa situazione.
Ha dei riferimenti reali per la biografia dei personaggi? Come viene richiamato dall’opera nel processo della sua scrittura?
No, generalmente li immagino e a volte la struttura cambia. Non è così facile, quando inizi a scrivere è un processo. Tutto ciò è una sorta di schema, ma non c’è niente di sicuro. Quando inizi a scrivere, ci sei tu e l’ignoto. Il libro ti prende per la gola, ti stringe, ti toglie il fiato, ti attira a sé, ti lascia dove più gli piace. Tu provi a liberarti, ma non ti lascia… il libro ti rapisce, ha una sua logica, – questa è la parte più difficile della scrittura, fino a quando non arriva un punto, solitamente verso la metà del romanzo, in cui inizia a cambiare il rapporto con esso. Allora, sei tu ad afferrare il libro, lo porti dove vuoi, non è il libro a trasportare te. All’interno della scrittura, questa parte è molto interessante. Dopo averti fatto soffrire, averti preso l’anima, a quel punto tu inizi, in qualche modo, a sentire che il libro viene verso di te, senti che lo stai afferrando ed inizi ad orientarlo, ad indirizzare l’opera, i personaggi, la storia e tutto quanto. Sai tu dove vuoi fermarti. Non è facile nemmeno questa fase, ma è molto importante.
Ha affermato anche altre volte che nel processo di scrittura vive nell’ansia, nella paura di non farcela… Perché?
Ogni volta che ho scritto un libro, la mia preoccupazione più grande è stata quella di non ripetermi. Da quando sono entrato nel mondo della letteratura, ho sempre avuto paura di fallire. Alcuni libri li ho scritti con grande difficoltà. Per questo motivo ho fatto mia una citazione di uno scrittore francese quando parla della scrittura, che chiama il “terrore della pagina bianca”. Sei davanti ad una pagina bianca che devi riempire, a cui devi dare il colore della scrittura. Ciò mi ha tormentato e mi ha sottoposto a stress. Durante una conversazione che ho avuto con una scrittrice belga ma, se non sbaglio, anche con una scrittrice albanese, quando ho fatto riferimento a questa cosa si sono sbigottiti. Mi hanno risposto che la scrittura per loro è una specie di piacere. Può essere anche così, dipende dal rapporto che ogni scrittore ha con la letteratura. Ma io, quando scrivo, non provo alcun piacere, la scrittura mi porta solo stress, mi tormenta una sensazione di disagio.
C’è qualche spiegazione del “terrore” con cui vive tale esperienza?
Non so, forse è quello che abbiamo detto prima, che probabilmente mi sono addentrato nell’ambiente letterario dalla porta sul retro. Mi sento come se mi trovassi in un dominio in cui sono entrato furtivamente, perché non ho studiato letteratura. Può essere attribuito anche a questo, dato che ho sempre lottato con il fatto di non essere del campo.
Non è così facile avere una risposta esauriente a ciò. Possono essere solo considerazioni, pensieri da diverse prospettive. Adesso ho raggiunto un’età in cui, più o meno, non conduco una vita attiva. Non scrivo da diversi anni. Seguo la realtà dallo schermo del televisore, non tocco le cose con mano, non le vivo in prima persona. Invece i miei libri sono le mie esperienze di vita, per cui il periodo di transizione a cui si riferisce la sua domanda porta con sé molte riflessioni. Alcuni pensavano che la transizione dell’Albania fosse stata completata l’anno in cui abbiamo aderito alla NATO. Può anche essere così. Non sono un filosofo e nemmeno un sociologo. Io scrivo i libri con l’intuito. Secondo me, tutte le società sono in transizione, passano da una fase all’altra. Noi, con “transizione” abbiamo inteso il passaggio dalla società chiusa di ieri alla società aperta, libera, dell’economia dei mercati post anni ’90. Ciò è avvenuto pienamente? Non so fino a che punto si sia realizzato. Ho provato a spiegarlo e a scoprirlo attraverso i miei libri.
Quanto ha influito l’ambiente albanese sulla sua attività creativa?
Sembra un paradosso ma, se non vivessi in quest’ambiente, non farei letteratura. Assolutamente no. Lì c’è tutto, la mia intera esistenza appartiene a quest’ambiente.
Come lo vede, quest’ambiente, rapportato alle fasi dell’attività creativa? Che ritratto fa della nostra società?
Il nostro ambiente, purtroppo, è un ambiente molto duro. È una società spietata, non emancipata. C’è troppa malvagità, troppa ferocia. È sempre stato così. Forse dipende da ciò che ho appreso nel corso della mia vita. Per lunghi periodi ho affrontato proprio questa ferocia, questa crudeltà dell’essere umano.
Dopo Kadare, lei è l’autore più tradotto in altre lingue, circa otto…
Sì, adesso sarò tradotto anche in Giappone, il libro esce nel 2020.
Ha firmato il contratto?
Sì.
Mi viene in mente una definizione originale del traduttore Edmond Tupja, un uomo abbastanza vicino a lei, ma, soprattutto, traduttore delle opere in francese, quando dice: “Fedele come l’ombra…”. Quanto sono importanti queste relazioni nel processo della scrittura, avendo presente anche tutti gli sforzi che ha accennato prima, in modo che il testo non perda qualcosa nella traduzione?
Tupja è troppo modesto… Lui è un perfezionista. Dal momento che ha tradotto tutti i miei libri e dato che conosco abbastanza il francese, non sono esterno all’ambito. Ho intrattenuto una relazione molto collaborativa e creativa con Tupja. Dato che leggevo le traduzioni, sicuramente potevo dare qualche suggerimento, ma niente di più. Mentre Tupja ha avuto una straordinaria influenza su di me, soprattutto nell’utilizzo della lingua albanese. Dal momento che provengo dal mondo della scienza, della matematica, e quello della linguistica non è il mio campo, la lingua non la conosco, mentre con la letteratura vado per intuito. Tupja faceva caso a molte cose. Entravamo spesso in conflitto. Usavo alcune forme che utilizzavo nella vita di tutti i giorni. Ma Tupja, essendo un perfezionista, me le bocciava. Io mi innervosivo, mi incupivo. Tuttavia molto presto mi ricredevo, aveva ragione. Solo in qualche raro caso avevo ragione io. Dal punto di vista linguistico ho tratto molto beneficio da Tupja, soprattutto quando utilizzavo espressioni che non fanno parte dell’albanese, che ho fatto subentrare per mezzo del francese… Veniamo all’espressione “fedele come l’ombra”: l’ha detta Tupja perché lui, oltre che traduttore, è anche autore, è un poeta. Traducendo i miei libri gli è venuta la voglia di scrivere in prosa. Non so quante volte me l’abbia detto. Così, ha iniziato a scrivere anche lui, perciò ha detto “fedele come l’ombra”… dunque, se a lui riconosco i meriti linguistici, egli riconosce a me il fatto di avergli fatto nascere il desiderio di scrivere. I libri li ha scritti sotto la mia pressione. Si è messo alla prova, e così ha scritto alcuni racconti e romanzi.
È stato anche suo mentore durante la sua attività letteraria?
Per me è stato uno sguardo perennemente critico sul libro, in quanto non ha mai esitato a dire quello che pensava. Non lo faceva mai per adularmi. Assolutamente no. In questo rapporto molto amichevole e altamente professionale non ho mai esitato a fargli leggere i libri e ad attendere le sue osservazioni. È capitato che tagliassi interi paragrafi, persino pagine. È stato un ottimo rapporto di amicizia, ma più di ogni altra cosa, professionale. Lui è un perfezionista. Ho lavorato per un lungo periodo come redattore nella casa editrice “Naim Frashëri”. Dalla mia esperienza come redattore ho capito che anche il miglior scrittore sbaglia, ha bisogno di uno sguardo nuovo, non di un redattore ideologico, ma arriva un momento in cui l’autore è saturo del libro. Arriva un momento, anche, in cui devi essere testimone perenne del tuo libro, come nel mio caso, devi rinunciare ad essere tu il redattore, devi smetterla di essere incerto. Perché, invece di inarcare le sopracciglia, distogli lo sguardo. Serve senza alcun dubbio uno sguardo dall’esterno, visto che tu ne sei saturo, non sei in grado di giudicare. Ma, attenzione, quella che scegli deve essere una persona come Tupja, non può farlo chiunque.
Ha rivelato che “Lëkura e qenit” è una dedica per sua moglie, la sua consorte. Perché un titolo tanto feroce?
Lo ammetto… il libro parla di un personaggio avventuroso ed è vero, l’ho dedicato a mia moglie, come ricompensa per tutto quello che ha passato a causa mia. Non sono stato una persona eccellente nel corso della mia vita, ho avuto molti difetti. Se ho scritto questi libri, il merito più grande in assoluto ce l’ha lei, Lili. Senza di lei non li avrei scritti.
A quanto dice, Lili le ha dato forza anche nel momento più difficile per la sua vita, la sua salute?
È quello che intendevo… Devo a lei anche la mia vita. Lei è la persona che mi ha tenuto in vita… Ciò che ha fatto è straordinario.
In ogni libro che ha scritto c’è una storia d’amore. Qual è la donna la cui immagine costruisce nei suoi libri, oppure essa è una rappresentazione all’interiorità degli uomini ribelli della letteratura che scrive?
È vero, in ogni libro che ho scritto, la donna è il personaggio centrale. Nessuno dei miei personaggi poteva prendere forma senza una donna. Per me, la letteratura è una bella donna che ho inseguito tutta la vita senza poterla mai possedere. Essa, nemmeno in letteratura può essere posseduta, così l’ha creata il Signore.
Ha affermato più volte di essere “una persona complicata. Tutti gli scrittori sono complicati. Sono persone molto egoiste. E io, sono stato estremamente complicato”. Quando un uomo parla in questi termini, che vuole dire?
Questo è un modo di chiedere scusa dal momento che, con le tue azioni egoistiche, ingestibili, non appropriate, come la parola lascia intendere, hai commesso un torto, non hai creato le condizioni che dovevi creare, con i figli, con la famiglia, con coloro i quali hanno il diritto di averle. Questo fatto mi ha sempre tormentato, visto che ho vissuto una vita sregolata per diverse ragioni.
Associare il proprio nome a quello di scrittore, in primo luogo all’interno della propria lingua, rappresenta una sfida più grande? Com’è stata l’accoglienza nelle altre lingue?
È una domanda che si pone spesso qui da noi, perché tutti hanno il desiderio di essere pubblicati in altre lingue. Questo è naturale, umano, ma non puoi pretenderlo senza passare prima per il tuo pubblico.
A prescindere da quanto sia stata crudele la vita, lei riflette sensibilità, modestia, ricerca il successo e la notorietà – come convivono tra di loro questi aspetti?
Chi è colui che non vuole il successo, soprattutto tra gli scrittori. A tal proposito, mi viene in mente un paragone: lo scrittore sembra una femmina che ha desiderio di mostrarsi, di apparire. Io non faccio parte di quella categoria di scrittori che si rendono interessanti per il lettore. Per me il lettore rappresenta il motivo principale. Senza lettore non puoi scrivere. Ci sono varie considerazioni a riguardo. Ciò si collega alla teoria che ci sono scrittori che vengono scoperti dopo 100 anni. Non so cosa succederà fra 100 anni, se qualcuno si ricorderà il mio nome o meno. Voglio comunicare con i miei contemporanei. Chiedersi cosa succederà dopo 100 anni, vale per gli immortali. Io mi considero mortale. Non ho l’illusione di essere immortale.
Dopo gli anni ’90 ha avuto una vita letteraria intensa, in confronto al periodo che sta passando ora, senza creare, in silenzio, passivamente – cosa ne pensa?
Ogni fase della vita dell’uomo ha la sua zona di comfort. La vecchiaia non è da meno. L’essere umano inizia ad abituarsi a certe cose, a volte si abitua a non fare nulla. Non avrei mai immaginato che avrei trascorso tre anni senza avvicinarmi alla scrivania. Tra l’altro, scrivere per me è stato uno stile di vita. Non potevo immaginare la mia vita senza la scrittura. Adesso sono tre anni che non scrivo e a volte mi illudo, senz’altro… qualche volta dico, e se… provassi di nuovo… dunque, non posso dire nulla con certezza…
Se stesse scrivendo adesso, oggi, quale sarebbe il soggetto, la storia ad esempio… cosa stimolerebbe e toccherebbe attualmente?
Sicuramente sarebbe un’avventura. Mi addentrerei in un’avventura che non so dove mi porterebbe. Sì, azzardarsi qualche volta ad addentrarsi in un’avventura, anche alla mia età, non sarebbe un peccato…
Quanto conosce il suo lettore?
Il lettore non lo conosco, lo sento. L’unico momento di contatto con il lettore sono le fiere del libro, dove sono sempre presente e rimango con piacere, senza pormi limiti di orario, solo per vedere il lettore. Il momento in cui autografo un libro, per me è il piacere più sublime.
[1]Fatos Kongoli, traduzione di Caterina Zuccaro, Illusioni nel cassetto: quasi un romanzo su me stesso, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2017
[2]Titolo approssimativo – il romanzo non è stato tradotto in italiano.
[3]La Casa delle foglie, Shtëpia e Gjetheve, è il più recente dei musei albanesi e probabilmente il più affascinante. È considerato l’equivalente del Museo della Stasi dell’ex Germania dell’est. Le foglie hanno un duplice significato: indicano le tracce nascoste nel bosco, ma anche il lascito di registri e dossier sugli albanesi. Era la sede del Servizio Nazionale di Intelligence, chiamata anche Casa delle Spie. La casa in origine fu costruita nel 1931 con la funzione iniziale di clinica medica. Durante la II guerra mondiale, durante l’occupazione tedesca, ne prese possesso la Gestapo. Conclusa la guerra, il governo albanese la recuperò trasformandola in uffici di sicurezza ed investigazione. Nel gennaio 2015 è stata resa nota al pubblico l’intenzione di farne un museo. Si trova nel cuore della città, davanti alla Cattedrale ortodossa e vicino alla Banca Nazionale. Il museo è stato aperto al pubblico il 23 maggio 2017.
[4]Fatos Kongoli, traduzione di Amik Kasoruho, L’ombra dell’altro, Nardò: Besa, 2015.
[5]Fatos Kongoli, traduzione di Marcello Palestina, Il drago d’avorio, Nardò: Besa, 2005
[6]Fatos Kongoli, traduzione di Marcello Palestina, Il sogno di Damocle, Nardò: Salento books, 2011
[7]Fatos Kongoli, traduzione di Eugenio Scalambrino, Pelle di cane, Lecce: Argo, 2008
[8]Fatos Kongoli, traduzione di Eugenio Scalambrino, Un uomo da nulla Lecce: Argo, 1994